giovedì 29 novembre 2007

Sex


Volete qualcosa di breve, volete qualcosa che suggelli la nostra epoca nella forma che più le si addice?
Un gesto che la raggomitoli e la congeli nel più stretto dei feticci da idolatrare?


Toh, tenete, l'orgasmo di uno scrittore


Ah


Tanto era questo che volevate, no?

lunedì 26 novembre 2007

Il mito della caverna...e il mio


Noi vediamo poco, quasi niente. Siamo orbi.
Semivivi, se vi piace di più. A volte ci siamo, a volte non ci siamo.
In un caso o nell'altro comunque, noi, abitanti del buio, non possiamo fare a meno di vedere ombre.

Dico questo perché l'amico Platone ha spacciato per anni l'idea che qualche coraggioso pioniere potesse permettersi il lusso di comprare un paio di occhiali, risalire il tortuoso stradello dell'errore e contemplare, ringalluzzito dalla nuova forza visiva, la mirabolante e raggiante luce del sole.

Vi distoglierò da questo brutto pensiero annunciandovi già da subito che il tanto agognato miracolo ottico non avverrà.

In primo luogo il sole brucerebbe la vista, impedendoci di godere persino delle ombre rimaste giù nella caverna. In secondo luogo, e questa asserzione è un po' più forte, non esistono né la verità né i cacciaviti e i martelli per rompere le catene che ci tengono "imprigionati" nella grotta, "obbligati" ad osservare le illusioni macchinate dagli abili prestigiatori alle nostre spalle.

Quelle catene siamo noi, ecco il punto. Se le rompiamo ci rompiamo.
Io penso e non scherzo, che noi siamo dei filtri piazzati tra il falso e il vero, siamo IL-LUSIONI, cioè dentro ad un gioco (in-ludo) ai cui estremi si pongono la realtà e l'allucinazione. Noi non potremo mai, e dico mai, toccare questi estremi. Pena: la morte.


Credo, invece, nei prestigiatori.
Non si tiri fuori i politici o il burattinaggio economico della pubblicità, per l'amor di dio. Non ho in mente loro quando dico che siamo orientati da "qualcuno" o "qualcosa", nelle nostre costruzioni. Penso ad un nonsocchè con quel pizzico di charme in più e soprattutto con spiccate doti creative, qualità sicuramente mancanti ai nostri vecchi governatori.

Naturalmente noi non possiamo vederli, questi prestigiatori.
Se dio vuole, la nostra condizione di semicecità è un manto protettivo che ci evita di essere scottati dalla loro incandescente consapevolezza.

Però il fatto certo è che l'umanità non è schiava di questi signori cosmici. Vige, tra di noi, un onesto e sincero rapporto di scambio: loro ci danno la verità e noi, dopo averla filtrata e falsificata, gliela riconsegniamo. E' un circolo simpatico, non vizioso. Anzi, non è nemmeno un circolo, è un gran casino; slittamenti temporali, salti bruschi, linee rette che si sfaldano su cerchi già tracciati e tant'altro ancora...poi ne parlerò.
L'importante è sapere che l'impasto che ne viene fuori, quelle ombre che scorrono sul muro della caverna conosciute altresì come realtà oggettiva, sono tutto ciò a cui possiamo aspirare.

Ma attenzione, nota bene, achtung!
Non si cada in stupidi tranelli e in giudizi frettolosi del tipo "questo appartiene a noi", "quest'altro è loro", "questa è sicuramente finta, è così evidente", ecc.; si mastichi bene prima di risputare.
Non sappiamo di preciso che cosa sia reale e che cosa non lo sia. Non sappiamo che cosa esista, di preciso.


Esiste l'uomo, l'individuo singolo. Lo accompagna una pratica antica quanto il suo esser venuto al mondo: la masturbazione mentale, l'andierivieni del pensiero, il flusso scorrevole del suo ragionare.
Quando l'attività di quest' individuo giunge al culmine, quando i sistemi nervosi si intrecciano tra loro e si scontrano e raggiungono l'apoplessi, il suo pensiero eiacula nel cielo e si staglia sopra l'umanità.
E' un'allucinazione, un'intuizione soggettiva e precaria, ma è il suo mondo, tutto il suo mondo.

Quand'anche le emissioni degli altri individui si uniscono ala prima ecco che, come un grande puzzle composto da tanti mondicini, prende forma un tetto. E' la noosfera, una sorta di pellicola opaca sopra le nostre teste, reale quanto la biosfera, come essa protettiva e ossigenante.

Platone la schifava tanto. Odiava il carattere fugace e transitorio che le era proprio. Quel brilluccichio sensibile...sapete..., quando le placche sono ancora fresche, e si mescolano tra loro, e non c'è versi di scollarle, e c'è confusione di mondi e inadeguatezza psicologica.

Non poteva però nemmeno sopportare chi sperperava il patrimonio in ammassi di inutile materiale cementizio con l'intento febbrile di tener ferme le placche o comunque di gestirle a modo proprio.

E sono convinto che odiasse ancor di più il momento in cui, dovuto alla secchezza e all'aridità che sopraggiunge dopo lungo tempo a qualsiasi forma di vita, si veniva a formare come una crosticina indurita che, poco alla volta, lasciava cadere pezzetti di mondi come cingomme appiccicate sotto a un banco chiamate improvvisamente a terra dalla forza di gravità.

No no, non era roba per Platone questo manto, questa cortina fumogena piena di movimenti e sovrapposizioni. Lui voleva superarla. Voleva pulizia, nettezza, definizione. Voleva vederci chiaro.


Sapete che vi dico. A me piace essere orbo. Io mi diverto a saltellare nello sperma viscoso dell'umanità, adoro essere annegato per lunghi inverni nelle calde procreazioni della mia specie, fluttuare lentamente rintontito dal torpore di idee straniere, assaporare il letargo della mente, non esserci...fino a quando un grido potente mi strappa dalla morte e mi sussurra, velocissimo, che ora è il mio turno, che ora posso essere io, a giocare.

Io sono contento di vivere in un sogno sconnesso, di far parte al tempo stesso dei dormienti e degli svegli.
C'è stato un periodo della mia vita in cui ho tentato di svegliarmi completamente.
Ero piccolo e incosciente; avevo preso l'abitudine di infilarmi di soppiatto e a notte inoltrata nel lettone dei miei genitori. Riparato da quei due scudi provavo a ripetermi in continuazione la frase "la vita non finirà mai", "non finirà mai", "finirà mai", "mai", "mai".
Era il mio modo, rozzo e primitivo, di far luce sul concetto di eternità. E funzionava eh; e come poi! Arrivavo ad uno stadio in cui le facce di mia madre, mio padre, mia sorella e la mia prendevano a girare vorticosamente nel cielo e poi salivano in alto, e si fermavano, e anche il tempo si fermava, e come posate su di un quadro puntinato di bianco e celeste quelle cominciavano a pulsare e io cominciavo ad odorare l'eterno...

Poi, ad un tratto, la pesantezza, la fatica di tener ferma l'immagine e un'ondata di paura che s'impossessava di me. Tutto, poi, finiva di netto.

Capite? Giunto ai confini del conoscibile la mia piccola mente veniva prontamente spenta dai prestigiatori. Volevo capire troppo, volevo svegliarmi, e loro applicavano un velo sui miei occhi con le stesse premurose attenzioni di una madre.
Lo so, ho rischiato grosso, ma qualcuno mi ha salvato.

Mi è successo anche l'opposto: mi sono rilassato, ho banalizzato il mondo e ridicolizzato l'uomo. Loro sono intervenuti e quella realtà sorniona e sbadigliante è andata in frantumi, il velo di maya si è sfibrato e, per quel breve lasso di tempo, mi è stata data la generosa opportunità di rimettere insieme le maglie.



Io non voglio che vi affaccendiate il capo con la diatriba su ciò che è oggettivo o soggettivo nei miei discorsi. Mi dispiacerebbe vedervi arrovellati nel dilemma di una scelta tra una vita dedicata alla ricerca di un' unica, sana e incontaminata verità e una sprofondata invece nella rassegnazione ad un universo illusorio e pieno di angherie.


Vi lascio allora con questa perla di saggezza e spero che non la prendiate né a ridere né troppo sul serio.


Noi siamo i bravi cazzoni dei prestigiatori. Loro ci agitano e noi spruzziamo fuori idee.
Non dobbiamo affliggerci perché quello che esce non è, come si suol dire, farina del nostro sacco; dovremmo anzi essere contenti di collaborare con loro. Certo quel pasticciume con cui abbiamo a che fare non è un gran che, soprattutto dopo che è passato dalle nostre mani ed ha cominciato a puzzare di finzione. Però dobbiamo ammettere che in fondo, noi, abbiamo il grande vantaggio di lavorare su di un materiale divino.

Che importa se la fuoriuscita, il prodotto, è un'ombra. D'altra parte se ci mettessimo in proprio, se decidessimo di lavorare senza quel materiale gireremmo a vuoto.
Se poi avessimo la presunzione di voler scavalcare il tetto, se il materiale puro a cui aspiriamo tanto non fosse diluito dalla nostra stoltezza e noi volessimo ugualmente farne uso nella sua pienezza, esso sarebbe troppo forte e alcolico: ci ubriacheremmo.

Noi abbiamo bisogno dei prestigiatori, dei loro trucchi ammortizzanti. Abbiamo bisogno di poter concepire l'inconcepibile. Loro hanno bisogno di noi, per osservare dal basso e dall'infimo la mostruosa e sconfinata immagine di sè stessi.

Noi saremo un ostacolo alla comprensione, oh Platone, ma siamo anche i propulsori creativi dell'universo.

martedì 13 novembre 2007

Libertà: via da dove?


Noi ci sciacquiamo sempre la bocca con la parola libertà. Ci avventuriamo in gargarismi complicati e prolunghiamo la durata del suo sapore con dentifrici e collutori messi a punto a tal fine da esperti intellettuali del settore.

In questi gorgheggi (gusto al metafisico) si odono sempre zampillare tre idee maestre, e le si possono sorprendere nel momento in cui, rinvigorite dalla potenza dei collutori, tentano di uscire con boria ed eleganza dalle bocche dei pronunciatori: inutile…cadranno a pochi centimetri dalle loro labbra, avvolte nella fedele amica bava.

Tre idee maestre abbiamo detto; tre richieste di libertà che presuppongono con arroganza la presenza di un posto migliore immediatamente successivo alla trappola dalla quale si vuole maniacalmente uscire.



Ci lamentiamo della mancanza di:
Libertà politica…e con essa giuridica, ecologica, di stampa, di parola, di opportunità lavorativa.
E’ una lamentela straziante che porta all’allucinazione salvifica di un GRILLO nei panni del Signore Salvatore, dispensatore di paradisi economici e luoghi messianici liberalizzati dalle follie governative del nostro secolo.


Ci lamentiamo della mancanza di:
Libertà fisica
Imprigionati nel nostro odioso e puzzolente paesino guardiamo alle grandi metropoli come ad agglomerati di pietre magiche che formano le strade e i palazzi della Gioia. Gli appuntamenti tardomedioevali del Sabba sono niente rispetto ai convegni delle opportunità che dimorano al loro interno.
I nostri occhi gialli da Negromanti mirano a queste città celesti, ipnotizzati dai vortici della frenesia che le caratterizza: la frenesia del cambiamento, la frenesia delle promesse, la frenesia, in ultimo, del bisogno compulsivo di frenesia, prodotto di una ghiandola ormai inceppata deputata al rilascio di adrenalina.


Ci lamentiamo, e basta.
Libertà psicologia
Ci adagiamo sul lettino di un qualsiasi consulente mentale ( che sia macchina o persona ormai non fa differenza) e iniziamo a crogiolarci nelle nostre angosce esistenziali come porci nel fango. “La trappola, la trappola!” sbrocioliamo nel sonno della coscienza. E giù ipotesi di congiure e organizzazioni antipsichiche pronte ad incastrare con tagliole ben oliate i nostri o pensieri così liberi e pieni di vita.
Sbaviamo, anche qui, al solo pensiero di un mondo libero da ostacoli, garbugli e trame.


Ma non ci soffermiamo mai, in questa sgraziata corsa alla libertà, a riflettere sulle gravi conseguenze del nostro agire.
Più scappiamo più il mondo retrostante diventa gigantesco e mostruoso; la fuga o il progetto della fuga non fanno che accentuare la guerra intestina all’interno di noi stessi e del nostro universo.
Siamo esseri stupidi e tormentati dall’ansia di abbandonare l’unico mondo che è in grado di ospitarci. Anziché alimentare la realtà, interagire con lei o stuzzicarla con spruzzi di fantasia ci intendiamo di ricostruire tutto da capo impregnando il nostro spirito di velenosi deliri di onnipotenza.
Vorremmo la libertà, l’inconsistenza, un viaggio irresponsabile e sempre e solo leggero e creativo; non accettiamo mai di sfidare i meccanismi che ci limitano, non dialoghiamo mai con i tropismi che ci guidano: noi li vogliamo continuamente distruggere. Per andare dove, poi?

Quello che concepiamo come Trappola non è altro, infatti, che una fitta rete di relazioni che, secondo appassionanti quanto lambiccate leggi metamorfiche, viene a comporre la nostra identità, la nostra forma, quello che insomma noi siamo veramente.

E se è vero, come dice Pirandello, che “noi tutti siamo esseri presi in trappola, staccati dal flusso che non s’arresta mai e fissati per la morte”, che darsi una realtà e un peso equivale a “fissarsi in un sentimento, rapprendersi, irrigidirsi, incrostarsi in esso” e dunque equivale ad “arrestare in noi il perpetuo movimento vitale, far di noi tanti piccoli e miseri stagni in attesa di putrefazione”, se è vero, infine, che il buio e il silenzio notturni trasformano la realtà in cui viviamo in una proiezione illusoria scricchiolante, è anche vero, come si ricrede in altri passi lo stesso autore, che oltre questa gabbia c’è il nulla.
C’è il mare, il vento, il fuoco, l'assestarsi dei colpi di quel flusso continuo, incandescente e indistinto…ma non c’è traccia di persona… di affaccendamento umano…di artificio terrestre.

Io voglio questo artificio! Noi dobbiamo volerlo e amarlo, senza agitarsi. Non c’è altro “fuori”.
L’uomo che si agita per uscire assomiglia al topo nella gabbia: non uscirà mai, nonostante si dia tanto da fare su quella rotellina; se lo farà sarà per entrare in un'altra gabbia, o magari, povero lui, per venir mangiato dal gatto che, ghignante, lo aspettava dall’inizio a bocca aperta.
Conviene rilassarsi, mettersi comodi. Non importa dove siamo, chi siamo e in quale tempo siamo intrappolati. Importa imparare a giocare con quella misera illusione scricchiolante che è la nostra vita, sospesi, come equilibristi, tra vuoto e forma.

lunedì 22 ottobre 2007

La rete e il palo Achilpa: un problema dell' identità




World Wide Web. Un mondo vasto. Così vasto che si può smarrire se stessi.
Certo, ci sono i porti franchi dei blog e dei social network, le amicizie, skype, le mappe, ma nulla mette a riparo da quell'immane fiumana provocata dal diluvio informazionale.

Chi siamo all'interno della rete? Voglio dire...che sembianze assumiamo quando navighiamo? Dove siamo in realtà, quando ci muoviamo?
Pensare che una parte di me possa essere catapultata in così poco tempo a migliaia di chilometri di distanza è un qualcosa che turba leggermente il mio senso di integrità.

Per questo ho scelto un confronto. Non per rispondere, ma per sfregare insieme due realtà lontane, nella speranza che dal loro scozzo esca almeno una scintilla di consapevolezza.


Noi ci muoviamo per lo più in un luogo sconosciuto, talmente pieno di frattaglie da risultare desertico, privo di percorsi logici e oasi di senso prefabbricate.
La rete - la rete che ci ingabbia, la rete su cui si salta, la rete che ci permette di pescare sempre nuovi elementi, la rete che ci interfaccia all'altro come in una partita tennistica - ha perso le caratteristiche della dimensione domestica: è diventata piuttosto un enorme campo nomadi su cui ogni giorno, come i primi colonizzatori lunari, dobbiamo piantare la nostra bandiera.

Succede allora, nel tentativo di cosmizzare questo territorio selvatico, di trovarsi sbattuti alle glaciali periferie del sensato, fuori dal gioco dei colori e fuori dall'elastico, irrigiditi e ammutoliti dalla paura di perdere il controllo su quel mondo che un attimo prima era apparso nostro amico.

E' in momenti come questo, momenti in cui il diluvio ti trascina al di là della rete, che puoi cogliere la tua frammentarietà, la tua trasparenza, il tuo essere fantasmatico innanzi al World Wide Web.

Come attraversare il nuovo? Come proteggersi dall'inevitabile turbine vorticoso che lo accompagna? L' ambiente sotto i nostri piedi è così mutevole, la nostra identità è così a rischio che devo chiedere se esistono ancora un Excalibur dei guerrieri, un anello del Signore, o una copertina di lana di Linux capaci di darci la forza e di orientarci tra gli anfratti onirici del cibernetico.

Gli Achilpa, una delle tribù australiane Aranda, ci forniscono forse il parallelo più pertinente di questo sentimento di sperdutezza in uno spazio sconosciuto, caotico.


Secondo la loro mitologia , un essere divino chiamato Numbakula "cosmizzò" il loro territorio e fondò le loro istituzioni.
Con il tronco di un albero della gomma Numbakula costruì poi un palo sacro, vi si arrampicò fino al cielo e scomparve.
Questo palo rappresenta l'asse cosmico; è infatti attorno ad esso che la terra diventa abitabile e si trasforma in "mondo". Il suo ruolo rituale, pertanto, è considerevole. Gli Achilpa se lo portano dietro nelle loro migrazioni e decidono la direzione da prendere a seconda della sua inclinazione.
Ciò consente loro, malgrado i continui spostamenti, di trovarsi sempre nel "loro mondo" e di restare al tempo stesso in comunicazione con il cielo in cui Numbakula scomparve.
Se il palo si spezza è la catastrofe; è in un certo senso "la fine del mondo", una regressione nel caos. Spencer e Gillen riportano una leggenda secondo cui l'intera tribù cadde in preda all'angoscia perché il palo si era spezzato. Dopo aver vagabondato a caso per qualche tempo, alla fine i membri si sedettero per terra e si lasciarono morire.


Questo è un eccellente esempio della necessità di avere un punto di riferimento nel deserto, fisico o cognitivo che sia.


Per gli Achilpa il "mondo" diventa "il loro mondo" solo nella misura in cui riproduce il cosmo organizzato e santificato di Numbakula. Senza quest'asse verticale che garantisce un'apertura verso il trascendente e al tempo stesso consente l'orientamento nello spazio, essi non possono vivere. In altre parole: non si può vivere nel "caos". Una volta interrotto il contatto con il trascendente e distrutto il sistema di orientamento l'esistenza non è più possibile. Gli Achilpa si lasciano morire.
Mircea Eliade


Un palo. Solo un palo, per mettersi in guardia dalle fobie paralizzanti che un oltre spaventoso incute loro come minaccia: queste persone rischiano di sparire come presenza di fronte al nuovo; presenza psichica, certamente, ma anche corporea.


Forse che il palo Achilpa (Kauwa-auwa), ricavato dal tronco di un giovane albero della gomma e convenientemente decorato, può essere il corrispettivo della nostra Apple, frutto del più curato design, o dei nostri blog, ricamati da layout e loghi tanto sgargianti quanto evanescenti?

Bastano, questi cari oggetti transizionali, a tener strette le maglie di un io pellegrino come il nostro, o moriremo anche noi, schiacciati dal pesante disordine della rete?

lunedì 15 ottobre 2007

Scrittura

immagine presa da John Picacio

Un pensiero ad alta quota, turbolento.
Per scrivere bisogna fare esperienza. Per fare esperienza bisogna lacerare la nostra persona.
Un taglio o più tagli, dritti sul cuore o trasversali, sulle parti del corpo, dipende dal tipo di scrittura per cui si è portati. L'importante è aprire, logorare e richiudere. Le cuciture delle cicatrici saranno le parole sul foglio.


Niente trucchi, tranne qualche ritocco di colore. Quando scrivo voglio il fiato dell' adrenalina sul collo. Voglio le voragini dell'immenso. Se non ci sono me le vado a cercare. Apro le cose, le faccio mie, le impoltiglio, le mangio e le rivomito.
Diffidate da chi non compie queste gesta. Diffidate da me, qualora non dovessi adempire a questo compito così vitale.


In questi momenti si può capire la storia, gli scrittori, le loro aperture. Kafka, per esempio, quando dice che le lettere si incidono nella carne e fanno male, ti cambiano, ti stravolgono. Sono convinto che più della metà dei giornalisti non perde un tassello della propria persona, quando scrive.

Io voglio perderlo. Sto chiedendo aiuto all' ambiente in questo momento. Spero che gli alberi mi divorino e sputino la mia carcassa lontano dal fantasma egoico che mi perseguita.

venerdì 12 ottobre 2007

Psichedelia e oltre: chiaccherata con gli scettici


Le architetture allucinate delle pitture. Le strane figure teriomorfe che si celano dietro ai racconti mitologici delle civiltà antiche. I personaggi storti e surreali dei libri, le loro facoltà avanzate, le loro azioni impossibili..."SONO IL PRODOTTO DELLA MENTE", si urla, castigando quei fenomeni in uno spazietto angusto nell'anticamera del cervello, a metà tra gli scomparti soggettivo ed inesistente.

Di quale mente? Di una mente "fantasiosa", "inventrice", che si diverte a gironzolare per l'universo della "fiction" azzardando di tanto in tanto timidi schizzi di colore sul maestoso e impenetrabile muro della realtà oggettiva? Non sono già feretri, sagome morte, questi schizzi? Che probabilità hanno di sopravvivere, se non come ologrammi, in un mondo compatto come il nostro, in cui non s'accettano mutazioni nè alterazioni, in cui ogni elemento di novità e stranezza è rincalcato a legnate dalla sobria ed elegante verità?

"INFATTI NON SOPRAVVIVONO", si risponde. "Sono stravaganze momentanee che rilassano e danno la forza per tirare avanti".

Perchè allora, cercando tra i Normali, posso scovare qualcuno che abbia fatto esperienza di trasformazioni corporee, mirato paesaggi luccicanti o previsto la propria morte?

Io parlo non di menti schizofreniche, che proiettano oggetti inconsistenti sulla realtà condivisa.
Parlo invece di menti psichedeliche, cioè indagatrici di costrutti, disposte a cogliere segnali muti e a lasciarsi cavalcare dalle sinestesie. Parlo di menti che hanno spostato il proprio assetto chimico per abitare, anche se solo temporaneamente, mondi alternativi.

"AH SI? E PERCHE' CI SAREBBE BISOGNO DI SOSTANZE PSICHEDELICHE? E che cosa significa questo spostare l'assetto chimico?"

Ecco, ve lo racconto:


(...) fatto sta che, in un luminoso mattino di maggio, ingoiai i quattro decimi di un grammo di mescalina sciolta in mezzo bicchiere d'acqua e sedetti ad attendere le conseguenze.
Essere sospinti fuori dalle linee dell'ordinaria percezione, ricevere per qualche ora al di là del tempo, la manifestazione del mondo esterno e di quello interno, non come essi appaiono all'animale ossessionato dalla sopravvivenza o a un essere umano ossessionato dalle parole e dalle nozioni, ma come essi sono captati, direttamente e incondizionatamente, da un intelletto aperto all'universo: questa è un esperienza di valore inestimabile per chiunque.


L'ipotesi scientifica che si avanza e che la funzione del cervello, del sistema nervoso e degli organi dei sensi sia principalmente eliminativa e non produttiva. Essi debbono infatti


(...) proteggerci contro il pericolo di essere sopraffatti e confusi da questa massa di conoscenza in gran parte inutile e irrilevante, cacciando via la maggior parte di ciò che altrimenti ricorderemmo o percepiremmo ogni momento intorno a noi, nell'universo.


Continua:


La maggior parte della gente, per la maggior parte del tempo, conosce soltanto ciò che passa attraverso la valvola di riduzione e viene consacrato come genuinamente reale dal linguaggio del luogo. (...) Il cervello è fornito di una serie di enzimi che servono a coordinare il lavoro. Alcuni di questi enzimi regolano la fornitura di glucosio alle cellule del cervello.
La mescalina, ad esempio, inibisce la produzione di questi enzimi e così diminuisce l'ammontare di glucosio disponibile a un organo che ha continuo bisogno di zucchero. (...) Quando il cervello lavora a zucchero ridotto, l'io indebolito si denutrisce, non si può preoccupare di intraprendere tutte le azioni necessarie, e perde tutto l'interesse in quei rapporti di spazio e tempo che significano tanto per un organismo soggetto a mantenersi nel mondo. (...) Ogni specie di cose biologicamente inutili comincia ad accadere...

Aldous Huxley, Le porte della percezione


Io penso che dovremmo riflettere su questo, signori miei.
Non è possibile che alterando la sola chimica neuronale venga franando quell' universo che abbiamo camminato per anni in comode pantofole da casa.

Mi chiedo se tutta la realtà preconfigurata da un assetto normale non sia anch'essa una grande allucinazione. Dato che ad una determinata impostazione cerebrale corrisponde una precisa immagine del mondo, e dato che noi siamo soliti affezionarci più del dovuto all'impostazione che ci ha offerto la vita quando c'ha incontrato, mi vien da ridere al solo pensiero che di qui alla nostra morte noi avremo vissuto al massimo una o due opzioni esistenziali.

E si ingrossa dentro di me il dubbio che la Normalità sia una realtà ingessata, fratturata dalle caviglie alla testa e impossibilitata a muoversi.

Insomma, se basta una goccia o un pezzo di carta di cinque millimetri per spostare il mondo, allora significa che quel mondo non è poi tanto compatto e resistente.

Ecco allora, io voglio aprire questo mondo, voglio squartare la normalità e abitarci dentro da nomade. Via le banalizzazioni e le ossessioni e via anche la serietà, diserbante di meraviglie.

Vi voglio però dar ragione su un aspetto, miei scettici. Niente droghe....ho trovato il modo di spostare il mio assetto senza danneggiarlo, o almeno spero